Dopo lunga e trepidante attesa, sono stati decretati i vincitori del Concorso Letterario "LiberaMente".
Ci complimentiamo con i vincitori, con gli autori delle opere cha hanno ricevuto una menzione speciale dalla giuria e con tutti gli altri autori, 4° classificati ex-aequo, per la bellezza e l'originalità dei componimenti, caratteristiche che hanno vivacizzato e reso più interessante il compito della giuria.
Augurandoci ulteriori e più prolifiche edizioni del Concorso Letterario "LiberaMente", vorremmo ringraziare tutti i numerosi partecipanti che ci hanno inviato le loro opere da tutta Italia, da Nord a Sud, ricordandoci che la nostra rimane una nazione votata alla bellezza e all'arte, a discapito della funesta contemporaneità.
Lunga vita alla buona letteratura!
SEZIONE POESIA:
1° classificato: Nell’assolo del tuo cielo , Gloria Venturini
2° classificato: All’ombra della quercia, Monica Nicolosi
3° classificato: Sapessi, Grazia Frisina
Menzione speciale: Il viale di san Giovanni, Gianfranco Natale
Menzione speciale: La barchetta e il mio papà, Greta Silverii
SEZIONE RACCONTO BREVE:
1° classificato: Notte da lupi, Lorena Lusetti
2° classificato: Madame Bovary, Pasquale Braschi
3° classificato: Nodi di memoria, Serena Gobbo
SEZIONE POESIA
1° Classificato
Nell’assolo del tuo cielo
di Gloria Venturini
Un tramonto come tanti
Accende il fuoco
Di orizzonti d’altri tempi,
l’anima si dipinge del rosso
dei sentimenti passati.
Sa d lontananza questo vento leggero,
mi conduce nell’azzurrità dei tuoi occhi.
M’inganna ormai la memoria,
laddove gli anni baciati dalla poesia
erano versi scritti solo per noi.
Si sopravvive alle nostalgie
Con la malinconia impressa dentro,
rassegnati come vecchi ad aspettare
le ombre lunghe dell’autunno.
Una storia accaduta la nostra,
dove le terre si sono divise
dal fiume acerbo dei silenzi,
la quotidianità non è riuscita
a valicare le alte vette delle aspettative.
Le attese non hanno tolto le spine
E le preghiere si sono perse nel tempo,
troppo taciuti i pensieri
per essere ascoltati ora.
La vita ci è schiantata addosso
mentre io parlavo alle stelle,
tu viaggiavi nell’assolo del tuo cielo.
Resta un muto equilibrio
tra le parole inespresse,
di noi rimangono due mani sole
ai confini delle nostre
diversità.
2° classificato
All'ombra della quercia
di Monica Nicolosi
Ho portato i miei passi alla collina:
i prati e il cielo non mi sono ostili,
eppure, nella nebbia mattutina,
mi sento avvolta da sottili fili.
Invisibili, impalpabili, ma amici...
è come se toccassi le radici
di quella grande quercia che sta in cima
che è testimon di ora e anche di prima.
Canta un uccello e un brivido mi assale
ma il canto è bello e non mi fa del male.
Il sole gioca con le fronde antiche
e su quell'erba, umida di brina,
disegna, lieve, un'armonia di trina.
Quanta bellezza e quanta dignità
in quel suo dominare la vallata;
la vecchia quercia certo non lo sa...
ma quanta gente l'avrà ringraziata.
La secolare ombra avrà protetto
risate, pianti e giochi di bambini
ed il bel prato sarà stato un letto
per quegli amor di serve e soldatini.
Anche oggi, che cammino solitaria,
rivedo i tempi andati e ci ripenso:
quanti progetti, che castelli in aria!
Discorsi seri, oppure senza senso.
S'increspano le labbra in un sorriso
mi immagino il futuro e me lo sento
così vicino che sfiorarti il viso
è cosa natural e non portento.
Sì, con te parlo, figlio mio sognato,
e già ti vedo stringere il domani
con quello che rimane del passato,
con quel che d'oggi t'entra nelle mani.
Le foglie poi cadran dal vecchio fusto
e nuove gemme presto nasceranno...
Cambia stagione, moda, cambia il gusto,
ci cambian gli anni, anche se non lo sanno;
ma mai potrà cambiare la collina
ed essa mai cambiar potrà la vita:
il nuovo sole asciugherà la brina,
s'intrecceranno i rami come dita.
La "ruota" gira, gira eternamente.
La vecchia quercia non si è mai stancata
e veglia, attenta e dolce, ma imponente
su quel che accade ancor nella vallata.
3° classificato
Sapessi
di Grazia Frisina
Sapessi
l’obbedienza dell’uccello al vento
la fedeltà della neve al silenzio
la gratitudine dell’ombra al platano
l’abbandono dell’onda al mare
non avrei altra lotta
fuorchè essere
uccello neve ombra onda
nel lento assecondare la vita.
Menzione Speciale
“per l’affetto e l’emozione che affiorano dai versi, perché attraverso le rime dell’artista ciascuno può riconoscere il proprio vissuto, i sentimenti e i ricordi che lo legano a un luogo caro, patrimonio di un’intera comunità”
Il viale di San Giovanni in Venere
di Gianfranco Natale
Gli abeti e i pini van d’accordo coi cipressi
a limitar la retta via che porta alla badia.
Ancor più a lato, invidiosi e tozzi,
ecco ulivi e viti rivaleggiar le siepi.
Un rivolo di cielo scorre muto fra le chiome,
bagnando la dura terra di luce e di colori.
Ma ancor da udir son murmuri e ronzii
e il fitto cinguettar tutte le lingue.
A mezza via, s’impiglia un triste velo
all’àncora di Bianco, non croste e ruggine,
ma liscia e candida, di marmo lavorata,
che al sacrificio riporta la memoria.
Quanta bellezza come d’incanto scende
e di mille profumi fa degna compagnia.
Avvolge e stordisce i sensi e lo stupore
fa tutti sazi che d’altro non si mangi.
Lento è il pendio fra gli orgogliosi tronchi,
alcuni ritti, e altri curvi come in ossequio.
E il passo lesto allevia la fatica dell’andare,
ormai che al fondo sì facile è il cammino.
Infine, d’improvviso, la discesa si fa brusca
e invita dell’ultimo sipario a superar le fronde,
ed ecco là, in fondo alla piazzetta, erbosa e piana,
l’imponente prospettiva delle antiche pietre.
Di qua fan capolino l’onde spumose e la Marina:
è un trionfo di colori col gigante vecchio e stanco,
assopito sulla cima del ciprigno promontorio,
e lo sguardo s’arrende a tanto muto splendore.
Menzione Speciale
“per la delicatezza e spontaneità dei sentimenti espressi, con l’augurio che l’amore per l’elegia accompagni questa giovane poetessa per la vita”
La barchetta e il mio papà
di Greta Silverii
Dentro di me, nel mio cuore,
desidero andare …
sulle onde, con te papà voglio navigare.
Si, con te … e la nostra barchetta i mari solcare,
le intemperie con coraggio affrontare.
La nostra barchetta, vedrai, ci saprà guidare
E luoghi mozzafiato ci farà ammirare.
Naviga, naviga, cavalca le onde,
segui la rotta, fissa la prua.
Lasciati dal mio cuore guidare
e il mondo intero andremo
insieme a conquistare.
SEZIONE RACCONTO BREVE
1° Classificato
Notte da lupi
di Lorena Lusetti
Notte da lupi questa. Nella foresta metropolitana il vento si insinua nelle vie creando correnti gelide. Percorro la strada a testa bassa, rasente i muri. Dietro un angolo mi accoglie una ventata che mi fa lacrimare gli occhi. Il freddo mi sale dai piedi ghiacciati. Ma devo andare, mi ha chiesto di accompagnarlo e non ho potuto rifiutare. Deve incontrarsi con lei. Gli ha concesso un'occasione e non poteva lasciarsela sfuggire. Vuole spiegarle, chiederle scusa. Da tanto pregava di avere questa opportunità, e oggi lei gli ha telefonato per dargli un appuntamento. Il luogo però mi lascia perplesso. L'ultimo piano di un posteggio. Non è molto romantico, e poi con questo tempo. Nessuna persona di buon senso andrebbe fuori in una notte così, una notte da lupi. Ho provato in ogni modo a fargli capire che stasera non doveva uscire, ma lui è innamorato, e l'amore non sente ragioni. Per fortuna che ci sono io, la parte razionale della sua coscienza. Non potevo lasciarlo solo in un momento così importante. Gli amici servono a questo. Affrettiamo il passo, Gianni è teso, non dice una parola, faccio fatica a stargli dietro. Scende una pioggerellina ghiacciata che sferza il viso senza pietà, ormai siamo quasi arrivati. Entriamo nel silo e cominciamo a salire le rampe. Qui non piove ma il vento ghiacciato turbina nella spirale. Proseguiamo fino in cima, sono 5 piani che per la fretta e l'ansia percorriamo di corsa. Ho il respiro affannato, l'aria mi brucia i polmoni. Arrivato in cima mi devo fermare per riprendere fiato. Il mio amico non se ne accorge nemmeno e procede spedito. Ah, l'amore cosa ti fa fare. Ti tira fuori una forza che non sai di avere. Beh, io mi fermo un attimo, tanto lo raggiungo, dove può mai andare, siamo all'ultimo piano. Anche se tornasse in dietro deve per forza ripassare di qui.
Poi d'improvviso accade. Lui è sparito alla mia vista, è corso a cercarla, lo sento che la sta chiamando laggiù. Ma lei è qui vicino, la vedo uscire da un'auto parcheggiata, in silenzio, senza chiudere lo sportello. E' strano che non gli risponda, eppure lo sente sicuramente, come lo sento io. “E' laggiù, ti sta cerando” vorrei dirle, ma un attimo prima di aprire bocca mi accorgo che c'è qualcosa di strano in lei, che non dovrebbe esserci. Uno sguardo cattivo negli occhi. Ha qualcosa in mano. La distinguo bene da qui: è una pistola. “Attento”, vorrei dirgli, “attento, ti vuole ammazzare”. Ma lui è lontano, poi non mi crederebbe. Me lo immagino: rimarrebbe lì, impietrito e incredulo come un salame. Morirebbe sotto i suoi colpi senza nemmeno credere a quello che gli sta accadendo. Non posso stare fermo qui a guardare senza fare niente. Mi lancio verso di lei “attento” urlo”attento, mettiti al riparo”. Ma lui non capisce di cosa sto parlando, si volta verso di me e rimane lì in piedi. Un bersaglio perfetto, fermo e illuminato dalla fredda luce del neon. Faccio l'unica cosa che posso per salvarlo: mi lancio su di lei nel disperato tentativo di farle cadere l'arma. Mi butto con tutto il mio peso mentre ha già il braccio proteso verso di lui. Una spinta, più forte che posso, contro il tempo, contro la velocità di una pallottola. Una spinta che la lancia verso il muretto basso e le fa perdere l'equilibrio. Per un attimo rimane lì, mi tende la mano, ma io non ho tempo di aiutarla, e la lascio cadere nel vuoto, con la sua espressione stupita e il suo grido rabbioso. Non ho tempo perchè devo andare a soccorrere il mio amico. Lei ha sparato. Mentre la spingevo lei ha sparato. “Gianni, Gianni, dove sei, stai bene? Sei ferito?” Lo cerco tra le auto, sento un lamento, eccolo lì. L'ha colpito. Bastarda, ha fatto in tempo a prendere la mira. Ha fatto in tempo a premere il grilletto. “Gianni, Gianni, rispondimi” . Mi avvicino al suo viso, respira ancora, mi guarda negli occhi ma sembra che non mi riconosca. Un rantolo gli esce dalle labbra assieme ad un rigagnolo rosso. Il polmone si sta sgonfiando, assieme al fiato se ne va la vita del mio migliore amico. “Resisti, ora chiamo aiuto, arriverà qualcuno, ti cureranno. Non mi lasciare” Mi rendo conto che i suoi occhi mi guardano senza più vedermi. Sono stupiti, e rimarranno stupiti per l'eternità. Si aspettava una riconciliazione, voleva chiedere perdono, invece era una trappola. L'odio di lei era troppo forte. Non lo voleva perdonare, lo voleva uccidere. La sorte ha voluto che morissero entrambi, nello stesso momento. Ora staranno assieme per sempre.
Luci, auto, gente che parla concitata. Transennano il piano, telefonano, parlano con quelli di sotto. Arriva una ambulanza, con calma. Io sono rimasto qui, vicino a Gianni, scosso dai brividi di freddo. Era il mio migliore amico e non lo lascio solo, rimango vicino a lui finchè me lo concedono.
“Commissario, secondo lei cosa è successo qui?”
“E' chiaro che lei gli ha sparato, ma è impossibile che sia stato lui a spingerla di sotto, era troppo lontano”.
“Crede che si sia buttata?”
“Forse sì. Magari è scivolata sul ghiaccio. Chi può dirlo. In una notte come questa nessuno dovrebbe girare per strada.”
“E di questo cosa ne facciamo?”. Questo mi chiamano. Questo sarei io, che ancora non mi rendo conto di quello che è successo. Il commissario allunga una mano verso di me. Mi tocca con cautela. Si rende conto che sono in stato di chock, non posso reagire.
“Era con lui, non si è mai mosso di lì. Povero lupo. Ha uno sguardo così triste, mi dispiace mandarlo al canile, ma cosa posso fare”
“Dispiace anche a me. E' proprio un bel cane. Dicono che dopo un'esperienza così traumatizzante possono anche impazzire. Non c'è più da fidarsi, bisogna farlo abbattere. Povera bestia”
Che dicano pure quello che vogliono, io non li sento nemmeno. Non so cosa ne sarà di me, so solo che devo rimanere qui, vicino a Gianni. Il mio amico.
2° Classificato
Madame Bovary
di Pasquale Braschi
Caro illustre scrittore,
con questa mia miserrima carta vergata a mano, che altri oserebbero chiamare coraggiosamente “lettera”, non intendo affatto misurarmi con la vostra eloquenza e la vostra ampia cultura letteraria bensì desidero manifestare la mia sincera gioia per aver appreso l’esito positivo del processo che vi ha visto coinvolto, conclusosi appunto con l’assoluzione, grazie alla strenua e tenace difesa dell’avvocato Marie Antoine-Jules Sénard. Se aveste raccontato la verità, così come ha fatto lo scrittore americano Nathaniel Hawthorne nel suo romanzo “La lettera scarlatta”, sicuramente avreste evitato l’onta sofferta.
Ho avuto il piacere di leggere il vostro romanzo - che tanto ha offeso la morale pubblica e religiosa - e, in quanto donna anch’io, lo trovo complessivamente straordinario, anche se devo ammettere che certe volte mi sono adirata per il vostro atteggiamento arrendevole, freddo e distaccato nei confronti di Emma. Avreste potuto evitarle qualche sciagura: sposata malamente a Bovary; perduta nella ricerca instancabile di se stessa anche dopo la nascita di Berthe; privata di ogni interesse per la vita. Il suicidio infine, inteso come unico rimedio in grado di sciogliere le briglie delle convenzioni sociali, chiude il cerchio intorno ad una donna vittima della morale del nostro tempo.
Ritengo, altresì, che il destino peggiore sia toccato proprio alla piccola Berthe, privata dell’affetto di sua madre e allevata da un padre che, seppur affettuoso, non riusciva più a garantirle una vita dignitosa a causa dei troppi creditori che si avvicendavano nei giorni successivi alla morte di Emma, portando via quasi tutto. Credo, però, che almeno in questo abbiate pienamente ragione. Ogni volta che qualcuno muore, chi gli sta intorno si divide in due contrapposti schieramenti: da una parte c’è chi ne piange la scomparsa, dall’altra c’è chi ne approfitta per arraffare tutto ciò che apparteneva al caro estinto (vedi Félicité). Sarebbe stato interessante ammirare almeno uno degli abiti indossati da Emma in un museo dedicato alle donne o all’arte dell’abbigliamento.
Ho letto “Madame Bovary”, dunque, grazie alla mano eretica di Marie de Vichy, la mia istitutrice che, con la sua apertura mentale per quel che concerne i metodi di insegnamento, mi ha passato i cosiddetti “libri proibiti”, contribuendo ad ampliare la mia modesta cultura di donna e a
liberarmi dai falsi pudori travestiti da “morale comune”. Oltre all’amore per i libri e la lettura, Marie mi ha insegnato tutti quei lavori che da sempre fanno parte del patrimonio culturale e antropologico di noi donne: cucire, ricamare, lavorare a maglia. Patrimonio di cui sono sommamente orgogliosa.
Ma torniamo al vostro romanzo. Leggendo con avidità mista a curiosità, mi persuadevo di conoscere già quella storia. “Forse mi sbaglio”, ripetevo tra me e me, convincendomi che si trattasse semplicemente dell’effetto evocativo della parola scritta. Poi ho provato a chiedermi quanto l’arte abbia imitato la vita e viceversa. Una domanda difficile alla quale ho provato a dare una risposta nfacendo ricorso all’aiuto di Marie.
I miei vaghi ricordi e la sensazione del déjà-vu sommate alla preziosa testimonianza della mia istitutrice hanno contribuito a ricostruire in maniera veritiera gli eventi da voi narrati. L’arte ha tentato di imitare la vita, deformandola. Questa è la mia risposta ed è la medesima per voi e per Marie (credo che, passandomi il romanzo, ella abbia voluto che io sapessi tutto). Quindi adesso siamo in tre a conoscere la verità: Emma, donna coraggiosa e forte, affatto scalfita dal senso di colpa e dall’angoscia, preferì l’esilio volontario all’estero, contando sull’ospitalità di alcuni lontani parenti residenti a Bari, nel Regno delle Due Sicilie; Berthe fu mandata a Reims presso la comunità dei Fratelli delle scuole cristiane, fondata da Giovanni Battista de La Salle, dove è stata allevata e istruita; Charles, invece, morì d’inedia nel 1838, convinto di essere un fallito sia come uomo che come medico. Oggi Berthe compie ventisei anni, insegna pedagogia alle future insegnanti presso la comunità che l’ha allevata amorevolmente e insegue un sogno: ritrovare sua madre. Non tutti i sogni sono destinati a diventare realtà, l’importante è crederci. E Berthe ci crede.
Vi ringrazio mio caro illustre scrittore, perché avete avuto il coraggio di immolarvi al posto di Emma in nome dell’arte e della letteratura. La libertà di pensiero e di parola vanno difese sempre, lottando in prima persona contro ogni eventuale censura, affinché ciò che per alcuni è solo un’eresia sia per tutti gli altri anche un dibattito costruttivo, aperto a nuove prospettive.
ROBERTHE CLAIRE DE ROUEN
semplicemente vostra Berthe
Reims, 17 maggio 1857.
3° Classificato
Nodi di memoria
di Serena Gobbo
La mia memoria è un pettine a maglie larghe che trattiene solo i nodi più grossi. Uno di questi nodi è don Pasquale, il prete che mi portò alla Prima Comunione. Non ne ricordo bene il viso, ma ogni volta che penso a lui, mi si accende davanti il labbro inferiore cascante: avevo sempre collegato questo tratto a qualche tipo di oscenità, come se al posto delle gengive rosa avesse messo in mostra gli intestini. Portava una veste color notte che sembrava assorbire la luce come un buco nero. Le sue lezioni di catechismo erano affaticate, come la sua pronuncia, che sembrava soffrire di quel labbro troppo pesante per riunirsi al fratello maggiore; nei pomeriggi primaverili, quando il vento tiepido ti solleticava i muscoli intorpiditi dall'inverno, era una tortura restare nel salotto della canonica ad annusare la naftalina del divano verde, e l'indifferenza di don Pasquale ci procurava spasmi ai piedi, ormai insensibili sulle piante a forza di battere sul pavimento.
Geneticamente incapace di generare invidie di alcun tipo, Don Pasquale per noi quattordicenni che abitavamo davanti alla chiesa era un intoppo nel fluire delle giornate, un fastidio che ci compariva davanti quando il pallone di stracci cadeva sui gerani della perpetua, o che ci sibilava nelle orecchie appena le bestemmie ci scappavano di bocca.
Nella noia legalizzata che vigeva in paese, quel prete era una figura scontata e rassicurante: dovevamo divellere questa immagine. Provammo a insudiciargli le mura della canonica scrivendo col carbone "ladro: dove sono i soldi della raccolta del ferro?". L'iniziativa fece rumore, ma se si escludevano i comunisti locali che già lo avevano accusato di furto prima di noi, tutto il resto del paese si amalgamò attorno al prete per difenderlo. Questa reazione mi indispettì: Don Pasquale, ci avrei scommesso, non aveva scelto la tonaca per seguire una vocazione, di sicuro non aveva sentito alcuna voce celeste che lo aveva colpito mentre pregava bambino davanti all'altare.
Proveniva da una famiglia di mezzadri; una volta uscito dal seminario la tonaca gli si era attaccata addosso come il feltro sulla stoffa, e per staccargliela di dosso ci voleva uno strappo secco. Era quello che stavo spiegando ai miei amici, quel pomeriggio dietro la chiesa, arrotolandomi una sigaretta rubata a mio nonno. Gli altri mi guardavano rispettosi: ognuno di loro in cuor suo sperava che la propria faccia esprimesse un grado di adorazione più alto degli altri, così da guadagnarsi una tirata.
"Gli rubiamo la tonaca! Ne ha solo una, gliela prendiamo quando la perpetua la stende ad asciugare. Senza quella vedrai che non si farà vedere in giro", disse Giovanni seguendo il cerino che accendeva la sigaretta.
"E se i nostri genitori fanno una colletta per ricomprargliene una?", obiettai.
"Con quali soldi?", disse Giovanni.
Mi accorsi troppo tardi che il prete ci aveva visto e si stava avvicinando quasi di corsa con una minacciosa testa bassa che gli faceva pendere ancora di più quel labbro sconcio. I miei compagni scattarono in piedi e fuggirono come galline spaventate. Io non feci in tempo: Don Pasquale mi afferrò l'orecchio e mi ritrovai dopo un paio di doloranti minuti seduto nella sua cucina. Senza sigaretta. Dopo tutta la fatica che avevo fatto per sottrarla dalla tasca del nonno che dormiva.
"Era la prima volta che fumavi?", chiese.
"No", dissi, e intanto pensavo a dove potesse essermi caduta la cicca per poterla recuperare una volta uscito di là.
Don Pasquale sbiancò:"Ma in confessione non me ne hai mai parlato! Quali altri peccati mi hai taciuto, allora?"
Mi concesse pochi secondi, poi fece il gesto di afferrarmi il braccio, ma io, che guardavo proprio quella manica per non vedere le sue gengive, me ne accorsi in tempo e balzai all'indietro. Lo scatto fece cadere la sedia e io, per non seguirla nella caduta, mi girai col bacino: la gamba di legno mi si conficcò diretta nel pube e il dolore mi si sparò nel cervello con la velocità di una cometa. Tornai a casa con uno straccio bagnato nella patta dei pantaloni, gocciolando lacrime.
Iniziò l'interrogatorio. Io ero seduto in mezzo alla cucina, con le mani tra le gambe. Alla fine, esausto di domande, sbottai: "Don Pasquale!". Mio padre si drizzò sulla schiena. Fu il mio silenzio successivo a indurlo a mettersi gli zoccoli e ad uscire dalla porta. Tutti gli altri, mia madre, mio nonno, le mie sorelle e zia Pina, lo guardarono andar via e si dimenticarono di me. Quel giorno mi accorsi che il silenzio è una strada, e come è impossibile che una strada non porti da nessuna parte, anche il silenzio inevitabilmente porta sempre in qualche posto.
Nessuno nominò più il nome del prete a voce alta. Ne arrivò un altro, più giovane, con le labbra che si chiudevano tra loro come pagine di un libro: però si lavava poco, difetto che, nel piccolo salotto della canonica, ci fece rimpiangere le gengive ostentate. Quando mi capita di pensare a Don Pasquale, mi trasformo in un involucro di confusione. Cerco di controllare il colore del viso, ma la mia coscienza diventa un chirurgo, mi apre la pancia per togliere qualche tipo di tumore, poi mi chiama, e quando ancora le viscere sono scoperte, mi chiede di guardarmi dentro e di dargli un consulto. Il tumore non si può estirpare. Devo solo continuare ad esistere per sdebitarmi con chi non mi chiederà mai di restituirgli qualcosa.